Improvvisamente il silenzio, lo spazio, l’attesa, una noia tinta di paura. Una sospensione che non ha limiti chiari nel tempo e nello spazio, finché i numeri continuano a crescere di potenza e le zone si colorano di rosso e arancio come in una partita a Risiko.
E non eravamo preparati, neanche un po’. Nessuno di noi lo era, e anche i Paesi che ci sono vicini stanno faticando ad adeguarsi. Figurati poi noi nella città da bere, quella della vita sociale mordi e fuggi dell’apericena, dei Taaac! efficentisti del milanese imbruttito, della spesa fatta online “che ho una call alle otto e mezza e non arrivo a casa prima delle dieci”, questa cosa di fermarci non l’avevamo messa in conto. Coi nostri figli già da piccoli con un’agenda zeppa di attività scolastico-sportive-social-culturali che li tengono sempre attivi, stimolati, ingaggiati. E dove l’agenda ha un buco, ci pensa la Playstation, o YouTube.
L’orror vacui fatto stile di vita.
E poi è arrivato lui. Un virus dal nome pomposo e dagli attributi regali che ti aspetteresti un ingresso con tappeti rossi e fanfare e invece no, è entrato nelle nostre vite in silenzio, sotto traccia, senza farsi notare, fino a che non si era già trovato comoda dimora nei nostri organismi. Un ospite inatteso, indesiderato, sconosciuto. Ma ormai è in casa nostra e qui rimarrà molto a lungo, finché il nostro sistema immunitario non lo conoscerà meglio, saprà come gestirlo e smetterà di allarmarsi ogni volta che lo incontra. Ma ci vorrà tempo, mesi almeno. Perché la questione non riguarda i sistemi immunitari entro i confini metropolitani, ormai è chiaro. Quando i virologi fanno riferimento all’immunità di gregge, non intendono quella dei lombardi, o degli italiani, o degli europei. Il gregge è l’intera specie umana. Tutti quanti. Il concetto di globalizzazione mai come in questo momento forse ha assunto contorni direttamente tangibili per tutti noi. E, dopo la corsa alla pronta soluzione, quando si è capito che i tempi di attesa erano lunghi, sono incominciate le riflessioni più profonde, le domande più scomode. Rossana Cavallari come sempre riesce lo annota molto bene: che vita ci eravamo costruiti addosso fino a oggi? Una vita costruita da pre-giudizi, da considerazioni date per scontate su cosa sia il progresso, il successo, il benessere, il prossimo. Anche Paolo Iabichino ha invitato a riflettere nei giorni scorsi sulle cose da aggiustare prima di pensare a ripartire con la corsa alla ripresa. Cose come il sistema sanitario e la scuola: in tutte sotto traccia si intravede l’idea di Bene Comune, snobbata troppo spesso come “buonismo”.
Intendiamoci, gli effetti economici di questa epidemia saranno importanti e non si vuole minimizzare. Quando sarà finita dovremo raccogliere i cocci e ricostruire con determinazione, solidarietà e resilienza. E certamente dobbiamo già da ora iniziare a pensarci. L’augurio che ci faccio, però, è che saremo capaci di farlo con uno sguardo nuovo sulle priorità.
Un pianeta, una specie
E forse è questa la prima de-contaminazione che forse potremmo praticare, facendo davvero nostra l’idea di interdipendenza planetaria che sinora era ben delineata nel nostro immaginario forse solo a livello economico. E oggi eccoci qui: ci confrontiamo nostro malgrado con quella sanitaria, che ci sta sbattendo in faccia il fatto che il sistema immunitario è patrimonio irrinunciabile di tutta la specie.
E se partissimo da qui per fare una riflessione anche sugli altri livelli? Per riflettere sul fatto che il virus, fermando la Cina, ci ha regalato immagini dal satellite di un calo dei livelli di inquinamento, di cieli limpidi sul continente asiatico? E per ricordarci che mentre l’Europa si muove scompostamente per fronteggiare l’epidemia, si sta consumando un’odioso braccio di ferro tra Turchia e Grecia che utilizza come pedine i migranti siriani in fuga da Idlib, teatro di un conflitto che non dovrebbe riguardarli? Oggi che siamo noi Italiani a essere ricacciati dai confini degli altri Stati, possiamo fermarci a riflettere meglio? Interiorizzare il concetto di interdipendendenza planetaria significa rivedere i confini dei concetti di Io e di Noi e la dialettica che li anima e che poi è quella che definisce la nostra identità.
Prossimità
E intanto stanno accadendo cose interessanti. Alcune persone mi raccontano in questi giorni, con uno sorriso incerto e sconcertato, che lo smart working forzato le ha liberate dalle continue, involontarie eppur inevitabili , “invasioni” dei colleghi e dei collaboratori, che ora lavorano meglio, con maggiore pulizia mentale, concentrati, intenti in quello che fanno. Le riunioni inutili (una delle malattie più diffuse del mondo organizzativo) sono scomparse e le call con i colleghi sono quasi tutte rapide e necessarie. Chi viveva nel mito dell’Italia super-performante sta scoprendo che è possibile essere efficienti, persino creativi e produttivi, con uno stile di vita e di lavoro più lento, meno zeppo di impegni. Che gran parte delle incombenze che affollavano le giornate non erano forse necessarie, ma orpelli superflui compulsivamente praticati per coprire la paura di un vuoto forse più di senso che di tempo o spazio. Forse molte organizzazioni potrebbero apprendere qualcosa da questo enorme esperimento sociale forzato e ripensare il concetto di efficienza delle loro culture secondo paradigmi nuovi, immaginari diversi. La purpose economy di cui tanto si parla non avrebbe alcuna possibilità di radicarsi senza un lavoro di pulizia da tutto ciò che non è essenziale. E se uno degli effetti collaterali dell’epidemia fosse questo, rifocalizzarci sull’essenziale, quello che ha senso, purpose appunto?
Ora poi che per salutarci a distanza di un metro dobbiamo trovare modi creativi di manifestare il piacere dell’incontro, forse ci possiamo davvero dedicare a guardarci a ri-conoscerci l’un l’altro da prospettive nuove. Con una prossemica relazionale forzatamente rispettosa, necessariamente contemplativa. Sappiamo modulare rispetto e intimità in modo sano? Sono domande che oggi siamo chiamati a farci a ogni incontro, e forse non è un male. Perché l’Altro a debita distanza è più visibile, lo mettiamo a fuoco meglio. E noi? Anche i nostri confini identitari sono più chiari: lo sguardo altrui ce li rimanda nei momenti, più rarefatti e quindi più densi di significato, di incontro. Scopriamo che l’identità è un dialogo e che lo stare insieme oggi può comportare categorie di cura prima nemmeno considerate. E che domani la solidarietà verso coloro che si troveranno in difficoltà al riprendere della vita normale (e non saranno pochi) dovrà essere naturale conseguenza di un ripensamento del confine col prossimo. In questa battaglia “siamo tutti sulla stessa barca” diceva un illustre virologo l’altra sera e questo modo di sentirci dovrà essere anche il mantra del “dopo”. Un sentire comune che dovremo tenere con noi per sempre, ricordando che mai come in questo frangente è divenuto chiaro che proteggere gli altri (#iorestoacasa!) è anche auto-protettivo.
Restiamo in casa e le ordinanze ci stanno costringendo a de-contaminarci dall’invasione costante e continua della nostra attenzione e percezione da parte di stimoli sonori, visivi, e relazionali. E se non avremo fretta, quando tutto questo sarà finito, di ritornare alle modalità di prima per dimenticare, rimuovere, passare oltre… forse tutta questa fatica, questa paura strisciante, questo disorientamento alla fine avranno avuto senso, perché ci avranno insegnato a cambiare paradigma del vivere, a dialogare col vuoto — che poi ha il cattivo gusto di somigliare al nulla della morte.
E intanto, nel silenzio, ci stiamo de-contaminando silenziosamente da un’altra paura atavica, quella per le macchine. Il digitale da potenziale malattia del nostro benessere psicofisico si sta rivelando un possibile rimedio: per gli studenti che possono seguire lezioni a distanza e non perdere l’anno, per i professionisti che possono lavorare da casa… Un recente comunicato del governo ci introduce a un concetto che per molti fino a poco fa era un ossimoro, la solidarietà digitale. Alice Avallone, sempre avanti, lo ha anticipato qualche giorno fa. Umano e digitale non sono mai stati così vicini.
“C’è dell’oro, credo, in questo tempo”
Mentre nelle nostre vite stanno rientrando il silenzio, gli spazi ampi delle passeggiate in solitaria, la noia, noi ci confrontiamo con la nostra finitezza. Ed è questo, credo, un altro terreno da de-contaminare: quello della delicatezza, della vulnerabilità dei Sapiens. Ne ha parlato con la consueta sensibile acutezza e attenta misura Francesca Folda in questo post.
L’ha evocata la voce meravigliosa e saggia di Mariangela Gualtieri, che ha segnato la data del 10 marzo 2020 sui tutti i nostri calendari futuri con parole di stupore, dolore, saggezza e amore per la nostra specie: “c’è dell’oro in questo tempo strano. Forse ci sono doni. Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo”. Le trovate qui recitate da lei al minuto 1.35 della puntata di Fahrhenheit dello stesso giorno oppure su Doppiozero.
Forse mentre giustamente enumeriamo, per rassicurarci, le soluzioni al problema dovremmo concederci un momento per imparare qualcosa da questa crisi che è un pezzo di Storia che stiamo vivendo. Perché questo è davvero l’asso della manica della nostra specie: imparare dalle esperienze, correggere i comportamenti, allargare il nostro immaginario con ciò che poco prima non era nemmeno concepibile. Persino un virus invisibile, spudoratamente democratico nonostante la corona che porta, che forse, senza saperlo, ci sta portando un messaggio nel silenzio cui ci obbliga. Com’è che faceva la canzone?
Volevo stare un po’ da sola, per pensare e tu lo sai
Ed ho sentito nel silenzio una voce dentro me
E tornan vive troppe cose che credevo morte ormai
Ed improvvisamente ti accorgi che il silenzio
Ha il volto delle cose che hai perduto…
(Mogol e P. Limiti)